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THE DOCTOR IS IN VOL.2 - Le storie e la storia: Parte 1 (Le premesse)

Mi ritenevo un grande critico del wrestling made in WWE e, più di recente, anche TNA. Mi ritenevo incontetabile e ho spesso perso interesse per lo sport spettacolo per brevi periodi in cui ero scandalizzato per qualche scelta del booking team. Negli ultimi mesi mi sono accorto come questa idea fosse totalmente errata. Mi sono trovato di fronte a una valanga di criticoni cronici, sempre pronti a osteggiare ogni scelta non gradita e piagnucolare per i presunti errori futuri. A quel punto, com’è solito, ho preferito distaccarmi dall’opinione comune e più diffusa e cominciare a difendere e trovare fattori positivi, anche in scelte e storyline più che discutibili. Quindi, per cercare, se non di appoggiare, almeno di comprendere, la direzione presa dal wrestling e dalle sue storyline negli ultimi anni, torno in azione, The Doctor Is In!

Voglio partire da lontano. Dal teatro. E precisamente dello spettacolo “Detto Moliere”, di Marco Martinelli, che è andato in scena a Ravenna poche settimane fa. La “Jean-Baptiste Catch Federation” è il teatro visto con gli occhi del bambino, la reintrerpretazione di un grande classico, Moliere appunto, attraverso il catch. Ora, sappiamo tutti che il catch è il precursore del wrestling come lo conosciamo oggi, e proprio per questo la visione dello spettacolo mi ha fatto pensare sul come qualsiasi cosa, qualsiasi storia, possa essere portata su un ring, dalla più semplice (la lotta per il titolo per esempio, ripresa della parte sportiva della disciplina), alla più complessa (come la trasposizione di un’opera letteraria).

D’altro canto è ovvio tirare in ballo la televisione, che è, oggi, il palcoscenico dello sport entertainment. E chiunque ha studiato un attimo di marketing, per necessità universitarie o anche solo per interesse personale, è a conoscenza del significato della parola target. Ogni programma, show, telefilm o anche pubblicità possiede in sé, dal momento della sua ideazione, un target ben definito. Alcuni programmi, come i talk show o i programmi di approfondimento, ma anche i quiz o i reality, che non dipendono da intrecci a lungo termine, non hanno certo bisogno di cambiare il loro target in corsa, in quanto si servono di traget occasionali, cioè di chi in quel momento cerca intrattenimento o informazione, svago o inchiesta. Per questi programmi non è un problema l’invecchiamento del pubblico in quanto una puntata non viene seguita in quanto sequel della precedente, se non per poche serie (che per un reality possono essere 10-12, massimo una ventina di puntate). Lo stesso discorso può essere fatto per quelle serie di telefilm, o anche cartoni animati, che non proseguono per più di 3-4 stagioni, cioè non hanno bisogno di coinvolgere più generazioni di spettatori (per fare un esempio, tu a 7 anni ti trovi a cominciare a vedere Dragon Ball, quando a 10 finisce la terza e ultima stagione, è ancora un programma adatto alla tua età).

È ovvio e immediato come il wrestling non faccia parte di questa categoria, poiché da oltre 20 anni la WWE monopolizza (o comunque sta nell’olimpo delle federazioni) lo sport entertainment americano. La longevità di RAW è uno dei più frequenti motivi di vanto per Vince McMahon e a ragione, perché serie televisive di successo con più di 7 stagioni sono ben rare. Il primo esempio che mi salta alla mente poichè riguarda da vicino la mia generazione è quello di Dawson’s Creek, telefilm che gran parte della mia generazione (e anche un po’ più vecchi) ha seguito in età (pre)adolescenziale: nelle sue 6 stagioni non si può non notare un’evoluzione nella trattazione dei personaggi e nel peso dei personaggi stessi. Nonostante la durata ben più ridotta rispetto a RAW, gli sceneggiatori hanno dovuto inseguire la volontà di un pubblico, giovane ma in rapida crescita, che cambiava esigenze in modo alquanto repentino. E allora, seppure il titolo parli diversamente, nelle ultime stagioni il personaggio di Dawson non è certo più al centro della storia (o non lo è come all’inizio). C’è inoltre da notare come, ad un certo punto, si sia smesso di inseguire le volontà di un pubblico ormai uscito dall’adolescenza per produrre, magari, un nuovo telefilm che potesse catturare le menti dei nuovi adolescenti.

Mentre scrivo questi excursus mi giunge anche alla mente un post (o forse un altro editoriale) che ho letto abbastanza di recente, in cui si parlava a grandi linee della storia del wrestling made in WWE. Vorrei a questo punto, liberamente ispirarmi a esso (e mi scuso con l’autore non potendolo citare per evidente buco di memoria) e, sfruttando anche i vari elementi precedentemente seminati, dare un rapido ragguaglio di come la federazione di Vince McMahon ha evoluto la sua linea produttiva, inseguendo, naturalmente, le sempre nuove esigenze del suo target.
Quando, nella seconda metà degli anni ’80, al nostro amico Vinnie, balzo alla mente l’idea di trasformare il wrestling in sport entertainment vero e proprio, introducendo prima i Big 4 PPV (che, attenzione, non sono Rondo, Allen, Pierce e Garnett!), poi dai primi anni ’90, WWF RAW, il target più facile da catturare non poteva essere altro che quello dei giovani. Nacque quindi quella che viene definita “Gimmick Era”, ovvero “un periodo in cui ogni atleta si presentava come un personaggio stereotipato, facilmente riconoscibile e caratterizzante, simbolo di una professione (Il Poliziotto, il Marinaio, l'Esattore delle Tasse, il Barbiere o il Modello) o di un ideale (l'Uomo da un Milione di Dollari, ed i tanti Difensori della patria)” (Wikipedia.org). Questo tipo di caratterizzazione era perfetta per una generazione che, negli anni ’80, si era caratterizzata per la musica dance e per la predilezione per le risposte già pronte (al contrario della precedente generazione di giovani anni ’70, quella della protesta feroce per farci un’idea) e quindi non poteva che apprezzare personaggi poco articolati e di poco spessore, molto vicini al cartone animato e lontani dalla realtà.

Qualche anno dopo il boom, sul finire del primo lustro degli anni ’90, la WWF scivolò abbastanza rapidamente in crisi, travoltà dallo scandalo steroidi e malata di atleti personaggi ormai vecchi e troppo “bambini” per una generazione di spettatori che andava crescendo. La fortuna, che certamente ha accompagnato Vince in tutti questi anni, volle che, richiamati dal potere del denaro, molti degli allora Main Eventers (i wrestler più obsoleti) passassero alla nuova concorrente WCW. Questi avvenimenti, se inizialmente acuirono la crisi della federazione di Stamford, furono però la base per un nuovo inizio. Forzati dalla crisi, infatti, i bookers, dovettero osare e, dopo aver lanciato alla ribalta qualche giovane promettente come Shawn Michaels, giocare il tutto per tutto con il lancio di un prodotto radicalmente diverso. Il colpo di genio fu nell’intuire che era inutile continuare a puntare sulle famiglie, dove i bimbi ormai erano presi dalla moda degli anime giapponesi. Il target che aveva seguito per anni i prodotti WWF era ormai cresciuto e cominciava a superare i vent’anni, quindi non cercava più il cartone animato, ma la ribellione verso le regole, quindi personaggi trasgressivi e sopra le righe. La nascita della DX e, successivamente, di Stone Cold Steve Austin lanciarono quindi RAW IS WAR verso la vittoria nella Guerra del Lunedì sera contro la WCW nonché a un successo immenso degli show. La cosiddetta “Attitude Era” è, per molti criticoni odierni, il modelle che andrebbe riproposto, è infatti ovvio come a noi, ora ventenni, sia congegnale quel modello. Voglio infine ricordare l’evento simbolo della svolta, che tutti certamente conoscerete, lo Screw Job di Montreal (Survivor Series 1997) coinvolge infatti la mente del cambiamento (Vince McMahon, ancora lui!), uno dei nuovi volti della federazione (Shawn Michaels) e il vecchio campione sul vile del tramonto (Bret Hart): in 5 minuti di PPV il nostro amico Vinnie fu capace di voltare a suo favore l’evento che poteva rovinarlo definitivamente (l’addio di Bret) e di lanciare il filo conduttore di tutta l’era, ovvero lo scontro dirigente bullo contro dipendente ribelle (Vince appunto, contro Stone Cold), tema molto caro a persone oltre i 25 anni, inseriti in modo conflittuale in mondo del lavoro, che potevano così vedere nel personaggio di Austin una sorta di rivalsa.

Credo però di essermi dilungato troppo, quindi preferisco dividere l’analisi in due parti. Ricordandovi che la storia si ripete e che quindi una spolveratina di storia, analizzata attentamente non dalla solita prospettiva, ma anche dal punto di vista dei “perché” si sono scelte certe linee narrative, può essere molto utile per capire e, chissà, prevedere, le recenti e future strade percorse dal booking team, senza criticare solamente in modo totalmente cieco, vi do appuntamento al più presto per la seconda parte, The Doctor Is Out!

 

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